Come la Cronaca Nera “colora” il Mondo – Approfondimenti
Mesi fa, in un mio articolo intitolato Approfondimenti: la Tautologia della Paura, ho raccontato di come nasce quello strano fenomeno cognitivo che Alessandro Dal Lago ha ribattezzato appunto “Tautologia Della Paura”, ovvero la formazione di stereotipi e generalizzazioni a livello di giudizio individuale che si basano essenzialmente sulla paura di scoprire l’alterità dell’Altro e sulla cattiva prassi di “etichettarlo” ancor prima di conoscerlo di persona. La “Tautologia della Paura” è una causa di xenofobia, perché tende a stigmatizzare il diverso sulla base di impressioni, pregiudizi e senso comune.
La cronaca nera: il più pericoloso velo di Maya
In quest’articolo, invece, mi piacerebbe discorrere riguardo al tema dell’influenza dei media sulla genesi di una mentalità collettiva “deformata”. In particolare, il condizionamento dei nostri giudizi personali si manifesta nel modo in cui ci sono riportate le notizie dei telegiornali, soprattutto quelle di cronaca nera. Senza realizzare qui un trattato di psicologia sociale o di filosofia della mente, che Mary Douglas con Come pensano le istituzioni o Noam Chomsky ed Edward Herman con La fabbrica del consenso hanno già delineato con infinita autorevolezza rispetto al sottoscritto, vorrei evidenziare ora due situazioni-tipo che illuminano il nesso fra l’accadimento di un determinato fatto di cronaca nera e la formazione di un giudizio individuale stereotipato.
1. Etnicizzazione del crimine
Attraverso la prassi di affiancare a un efferato misfatto, quale può essere uno stupro, un femminicidio o un episodio di pedofilia, la nazionalità del criminale che lo ha commesso (es. “Ragazzo albanese uccide la fidanzata e getta il corpo nel cassonetto della spazzatura”), il delitto cessa immediatamente di essere un atto individuale e diviene una colpa collettiva dell’etnia di provenienza del delinquente. Nell’esempio in questione, gli abitanti del suolo nazionale attribuiscono il crimine agli immigrati albanesi nel loro insieme, non a un soggetto con nome e cognome. Tutto questa fomenta l’odio contro determinate etnie e spinge ad argomentazioni ardite, prive di ogni fondamento oggettivo. Naturalmente, se usiamo la ragione riusciamo a difenderci dagli effetti dell’etnicizzazione del crimine: un numero anche molto alto di crimini commessi da soggetti di una certa nazionalità non può certo giustificare la stigmatizzazione dell’intera nazionalità! Come dire, la presenza di molte mele marce all’interno di un raccolto non è una buona giustificazione per buttare via tutto il raccolto, indistintamente…
2. Localizzazione del crimine
Quando un fatto di cronaca nera particolarmente grave accade in una località ancora “incontaminata” dall’attenzione dei media e quasi priva di notorietà… nascono problemi enormi! Se a Milano, Roma o Napoli ci sono omicidi, stupri o rapine, l’immaginario che abbiamo di queste città è talmente vasto e profondo da non essere scalfito troppo da queste “schegge impazzite” di violenza e sdegno. La ferita che esso riporta è solo superficiale e presto sarà rimarginata. Se, invece, un episodio di cronaca nera accade ad Avetrana, Novi Ligure o Cogne, il danno prodotto dalla reiterazione del nesso “crimine-teatro del misfatto” fino all’esaurimento, può portare a danni irreparabili. L’immagine di queste località sarà sempre macchiata di nero, di un nero difficile da cancellare. Non per niente, la cittadina splendida di Cogne ha avuto un calo netto del turismo negli anni successivi all’omicidio del piccolo Samuele. E ancora oggi, Novi Ligure riporta alla mente l’atroce e sanguinario misfatto, prima di ogni altra immagine simbolica.
La deformazione dell’immaginario collettivo
Queste due spiacevoli contro-finalità della cronaca nera illuminano il modo in cui le notizie dei media contribuiscono a deformare l’immaginario collettivo. Si possono citare infiniti altri esempi di questo tipo, come la volontà di dipingere una generazione del colore di alcuni suoi esponenti che deviano dalla norma (è il caso di macro-fenomeni come il bullismo o l’uso di sostanze stupefacenti); oppure, la squalifica morale di certe fazioni, siano esse sportive o politiche (nel giugno 2013 è balzata negativamente alla cronaca la tifoseria del Lecce, a seguito di pesanti disordini connessi alla mancata promozione della squadra in serie B. Durante i G8, invece, vengono puntualmente stigmatizzati i ragazzi dei centri sociali, per le intemperanze di un numero minoritario di esponenti facinorosi).
Quale può essere la soluzione? Che fare, allora?
La soluzione per risolvere il cortocircuito di stereotipi e generalizzazioni collettive esiste. Bisogna partire, però, da una constatazione: la definizione di notizia giornalistica si basa sulla localizzazione del fatto e l’individuazione di chi lo ha commesso. Le tradizionali cinque W (chi, che cosa, dove, quando e perché) sono l’essenza di ogni notizia, la sua conditio sine qua non. Allora, l’unica strada per mantenere inalterata la nostra sovranità di giudizio è quella di non cedere alla morbosità, di imparare a discernere la causa e l’effetto, di giudicare ogni avvenimento di cronaca nera con l’imparzialità della propria ragione, di andare oltre il “sentito dire”, di non ricevere mai indottrinamento dall’alto. Insomma, l’unica strada… siamo Noi!
Stefano Airoldi
2 Comments
giuseppina
24 giugno 2013 at 8:16oggi la comunicazione e’ diventata un fatto invadente e raramente di liberta’ e di scelta: essa infatti raggiunge il pubblico senza che questi la cerchi. Ogni uomo con le proprie strutture mentali deve riuscire a farsi capace di smascherare tanti manipolatori o notizie troppo artefatte, riaffermando il principio dell’uso della pura verita’ concreta senza abusi collettivi di un qualsiasi mezzo di informazione.
Stefano
20 dicembre 2015 at 12:22Grazie Giuseppina. Parole sagge! La capacità di giudizio e la prospettiva critica sono le nostre armi contro stereotipi e pregiudizio. Usiamole! ☺